Rughetti: “I comuni virtuosi devono poter investire i loro soldi”

Non basta discutere di Imu e Tares: la soluzione è una revisione del Patto di Stabilità interno
Intervista ad Angelo Rughetti di Dario Ronzoni, Linkiesta

Il braccio di ferro sui Comuni (e sugli enti locali) è appena all’inizio. Tra Pd e Pdl si discute sulla nuova Imu, mentre da qualche giorno sono stati decisi i rimborsi per i Comuni, un modo per compensare il mancato gettito della rata di giugno. Ma le difficoltà all’orizzonte non mancano: dall’aderenza al Patto di Stabilità interno, che grava soprattutto sui Comuni virtuosi, come ritorna a spiegare Angelo Rughetti, deputato del Partito Democratico ed ex segretario generale dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), e che «andrebbe indirizzata con un criterio più attento alla complessità della situazione in cui versa ogni comune».

Però i soldi cominciano ad arrivare.
Sì, ma sono quelli della compensazione ai Comuni, 2,32 miliardi che sostituiscono l’Imu di giugno, un apporto di denaro che è venuto meno e che andava rimborsato. Il problema però rimane: ci sarà qualcosa dalla legge di Stabilità, ma non sarà sufficiente. Tutto è legato non solo all’Imu e alla Tares, ma all’architettura stessa del Patto di Stabilità interno.

Si torna sempre lì.
Sì, è sempre una situazione delicata. Il problema è che non permette ai Comuni di fare investimenti, perché i soldi restano in cassa, bloccati. Non possono essere spesi.

Sì, ma sbloccare finanziamenti rischierebbe di non porre più differenze tra comuni virtuosi e comuni spendaccioni.
Il problema è più complesso, e anzi funziona al contrario: è sbagliato porre le stesse regole per i comuni virtuosi, cioè che sanno risparmiare e far funzionare i settori, e per i comuni disastrati. Ma non solo: è sbagliato che coinvolga allo stesso modo comuni come Roma, che sono giganteschi, o comuni che hanno un migliaio di abitanti. Oppure, volendo utilizzare parametri ulteriori, e non solo la grandezza, è sbagliato mettere sullo stesso piano un comune come Brescia, in cui i lavori pubblici sono di complemento – ogni opera pubblica si appoggia su una ricca e funzionante struttura di privati – e un comune del Sud in cui non c’è alcuno sviluppo infrastrutturale che possa supportare l’iniziativa pubblica. Non so se è chiaro.

Chiarissimo. Ma come si può articolare?
In due modi: uno qualitativo e uno quantitativo.

Cominciamo da quello qualitativo.
È semplice: come dicevo prima, occorre differenziare a seconda delle situazioni che ogni Comune presenta. Stabilire, insomma, delle categorie di riferimento, più precise.

E quello quantitativo?
Serve una dote che vada a ridurre la manovra a carico dei Comuni. Sempre in modo da non danneggiare i più virtuosi ma renderli, al contrario, in grado di fare investimenti.

Si tratterebbe di trovare soldi per i Comuni, insomma.
No, non soldi, ma spazi finanziari. Cioè fare in modo che la spesa in investimenti non venga conteggiata nel patto di Stabilità. Cioè non si tratta di chiedere soldi, ma liberare gli investimenti. Senza che questo rompa il patto di Stabilità.

Sì, ma se non può farlo sui fondi dei Comuni, su quali risorse lo Stato può fare affidamento per garantire i conti a posto con l’Europa?
Sugli altri comparti della P.A., ce ne sono alcuni su cui lo Stato può insistere e chiedere di avere meno uscite in conto capitale. Perché hanno un giusto equilibrio: e mi riferisco a Regioni e Province. In modo da rilanciare gli investimenti e dare maggiore attenzione alle necessità dei Comuni. Il tema, del resto, è seguito con sempre maggiore attenzione dalla classe politica.

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